Marche: sempre meno figli e residenti, un dato che impone scelte politiche a breve

L’Italia invecchia sempre più. Stando ai dati dell’ultimo censimento diffuso dall’Istat, ci sarebbero cinque nonni per ogni bambino, un dato che fa del nostro uno tra i Paesi più vecchi al mondo.

Nelle Marche, in particolare, la percentuale della de-natalità è, se possibile, ancor più preoccupante, avendo assunto, negli anni, ritmi sempre più veloci: nel 2019 vi sono nati 9.670 bambini, 501 in meno rispetto all’anno precedente (-4,9%), raggiungendo un record minimo storico. I numeri, davvero allarmanti, contribuiscono a fare il quadro di una società che ha bisogno di politiche specifiche, che incoraggino le madri a fare figli e a rendere i territori di provincia un luogo dove vivere e lavorare sia non solo possibile, ma una prerogativa di chi sceglie sapientemente di risiederci, beneficiando di tutto ciò che hanno da offrire.

Il tema, affrontato, negli anni, in tante sedi, è tra i più importanti nell’agenda dei prossimi governi. Non esiste infatti prosperità in un paese il cui indice di natalità è fra i più bassi al mondo.

Il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer afferma che il senso morale stesso di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini, per questo e perché non esiste futuro senza di loro, occorre invertire il trend, studiando soluzioni a breve e lungo termine.

Si tratta, ovviamente, di ripensare le politiche per la famiglia, ma anche di ricostruire il tessuto produttivo locale, lacerato da anni di crisi economica e reso asfittico dalla mancanza di una vision chiara in merito a ciò che dovremo essere in un futuro non troppo lontano. È infatti pacifico che dove non c’è sviluppo e dove non c’è lavoro avvenga, inesorabile, che la popolazione abbandoni il proprio luogo natio per andare dove gli si offrano maggiori opportunità per vivere. Ed è ciò che è accaduto, tristemente, alle Marche, dove a fronte di un calo della natalità, si è assistito, nell’ultimo ventennio, anche ad una lenta ed inesorabile emigrazione verso altre regioni e verso l’estero.

Nel 2019, in forte aumento rispetto all’anno precedente (+16,0%), l’Istat rileva che 5.792 persone hanno lasciato le Marche, effettuando un cambio di residenza. Negli ultimi cinque anni i marchigiani che hanno lasciato la propria regione per l’estero sono stati complessivamente 28.818, un numero impressionante se consideriamo che tra quest’ultimi ci sono tanti giovani laureati in cerca di nuove e più vantaggiose prospettive di lavoro e di vita. Se la politica dei prossimi anni non terrà conto di questo dato nulla avrà più senso. Tanto più se consideriamo che le Marche hanno perso il loro appeal anche nei confronti della componente straniera della popolazione. Negli ultimi cinque anni infatti la diminuzione dei cittadini stranieri è quattro volte più elevata di coloro che hanno la cittadinanza italiana (-6,7%), dato che va spiegato con la mancanza di lavoro e di opportunità per chi viene da altri paesi e che stride con la volontà, espressa più o meno da tutti i governanti del passato, di inseguire crescita, benessere e Pil.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ad inizio 2020, parlava del calo demografico come di un problema talmente grave da mettere in pericolo l’esistenza stessa del Paese. Segno evidente della priorità che esso ha nell’agenda delle istituzioni, chiamate a compiere scelte coraggiose nel presente. Non si tratta solo di riconoscere fantomatici bonus bebè, ma di ripensare l’impalcatura morale della società, in cui fare figli, per dirne una, possa tornare ad essere un valore positivo, che accresce il peso e il valore delle madri, anche nel mondo del lavoro.

Occorre anche stabilire quali siano i costi reali sostenuti da una famiglia al momento in cui nasce un bimbo. Stando ad una ricerca Istat del 2017, per mantenere un figlio nei primi dodici mesi di vita si va da un minimo di 7.072,90 a un massimo di 15.140,76 euro. Il prezzo di latte e pappe oscilla tra i 1.700 e i 3.600 euro, rappresentando una parte considerevole del “paniere” infantile. Intervenire su queste voci di spesa familiare potrebbe essere un primo concreto passo verso la costruzione di quelle politiche a favore della natalità che servono davvero al Paese. Il resto, purtroppo, appare più come un monito alla propaganda, che un tassello della soluzione auspicata.

Altro discorso per quanto riguarda la residenzialità. Perché le Marche perdono così tanti residenti ogni anno? Quali sono le ragioni di un trend tanto negativo?

Certamente la perdita di appeal va di pari passo con la crisi economica di cui da anni soffrono i distretti produttivi. La mancanza di prospettive occupazionali spinge la popolazione residente a spostarsi in altre regioni, se non addirittura all’estero.

È evidente che occorra supportare le imprese, offrendo non soltanto contributi a fondo perduto, ma infrastrutture capaci di traghettarle nel futuro, facendole essere competitive in un mercato che è sempre più globale. E non mi riferisco solo ad infrastrutture viarie, delle quali conosciamo l’ormai atavica carenza sul versante adriatico dell’Italia e nella regione Marche in particolare, ma a quelle digitali, oggi ancor più importanti e, da un certo punto di vista suppletive, di quelle fisiche. Realizzare una banda ad alta velocità è fondamentale per collegare le imprese marchigiane al resto del mondo, dove certe infrastrutture già esistono, favorendone la competitività.

È necessario che le istituzioni facciano la loro parte nell’opera di modernizzazione dell’economia locale, ampliandone le opportunità in un mondo profondamente mutato rispetto a quello in cui prosperavano i distretti fino a qualche anno fa.

Entroterra marchigiano

Le Marche devono tornare ad essere quella terra attrattiva che erano in passato, trasformando modelli produttivi obsoleti in frontiere di sviluppo anche nell’entroterra, dove la diaspora, anche a causa degli eventi sismici del 2016, è stata più radicale.

Investire sul turismo, per fare un esempio, è un modo per offrire occasioni di lavoro ai giovani, sempre più orientati verso le nuove professioni nate nell’ultimo ventennio, delle quali, talvolta, sottovalutiamo l’importanza. Gli Enti dovrebbero farsi carico della formazione specifica per ogni settore, avendo consapevolezza del fatto che la scuola ha tempi di trasformazione troppo lunghi per essere al passo con i tempi e che spesso non riesce a preparare i lavoratori per le mansioni che le aziende richiederanno loro un domani. Intercettare le vere esigenze del mercato del lavoro in questo tempo di grandi cambiamenti sociali è compito che spetta alla politica, chiamata a costruire l’Italia che lasceremo alle prossime generazioni e a fare di ogni progetto un’occasione di crescita per tutti.

Il 2021, come tante volte si è detto, dovrà essere l’anno della rinascita. Perché realmente lo sia occorre ripartire dalle basi, rifondando un nuovo patto con i cittadini e ritrovando nuove prospettive di crescita per tutti. Se il trend è quello di una realtà in cui i decessi sono quasi il doppio delle nascite, occorre ripensare tutto, anche lo stesso vivere insieme. E non c’è tempo da perdere, perché ogni occasione persa avrà conseguenze nel lungo oltre che nel breve termine.

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